Omelia XXVIII A, 11 ott 2020 


Ave Maria!


Sembra che questa parabola del banchetto fosse molto popolare tra le prime generazioni cristiane. E’ stata accolta, infatti, da Luca e Matteo, ma anche dal vangelo “apocrifo” di Tommaso. Comunque sia, le applicazioni pratiche che se ne possono trarre sono tanto diverse, e tutte molto significative, per cui possiamo solo avvicinarci il più possibile agli elementi essenziali di questo racconto originale di Gesù. Dio sta preparando una festa finale per tutti i suoi figli e li vuole vedere, insieme a Lui, seduti alla stessa tavola, per godere di una vita piena. Questa fu certamente una delle immagini del Regno di Dio più amate da Gesù per “suggerire” la fine ultima della storia umana!
Gesù, infatti, conosceva molto bene la vita, dura e monotona, dei contadini del suo tempo: sapeva quanto aspettassero la venuta del sabato per “liberarsi” del lavoro. Li vedeva, talvolta, divertirsi nelle feste e, particolarmente, nelle feste di nozze: quale esperienza poteva essere più gioiosa per questa gente che essere invitati a un banchetto e potersi sedere a tavola con i vicini, condividendo questo momento di una festa di nozze? E allora, mosso dalla sua esperienza di Dio, Gesù utilizza queste immagini della vita, per dire a noi un messaggio sorprendente: la vita non è solo questione di travagli e preoccupazioni, pene e dispiaceri di ogni genere, perché Dio sta preparando per tutti noi una festa, una festa oltre ogni nostra immaginazione. Vuole per noi una vita pienamente felice.
In realtà Gesù non si accontentava solo di parlare di Dio. Era molto concreto e invitava tutti alla sua mensa. Mangiava persino con peccatori e persone indesiderabili per il senso comune. Gesù voleva essere il grande “invito” di Dio alla festa finale. E voleva vedere con gioia che tutti potessero partecipare a questa festa. Che ne è stato, allora, di questo invito? Chi l’annuncia? Chi lo ascolta? Dove possiamo ancora avere notizie di questa festa di Dio? Appagati, in un certo senso, del nostro benessere, sordi a tutto ciò che non sia il nostro interesse, momentaneo e assoluto, finiamo con il credere che, a conti fatti, non abbiamo bisogno di Dio. E così non ci stiamo, poco a poco, abituando a vivere senza il bisogno di una speranza ultima? Ma, nella parabola di Gesù, quando coloro che hanno campi e affari rifiutano l’invito, il re dice ai suoi servi: “ Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze”. L’ordine del re è inaudito e sconcertante, - è mai possibile che il re non sia per niente offeso da quei rifiuti? -, ma riflette al cento per cento ciò che Gesù vuole annunciare: nonostante tanto disprezzo e rifiuto, ci sarà comunque una festa, perché Dio non è cambiato e non cambia. Bisogna continuare, dunque, a invitare! A dire il vero l’invito di Dio si farà udire “ai crocicchi delle strade”, là dove ci sono tante e tante persone di passaggio, senza campi e affari a cui badare, e che nessuno ha mai invitato ad una festa. Sono proprio loro, le persone senza sicurezze e profondamente inquiete, che possono comprendere e accettare, meglio di tutti, l’invito di Dio. Di fatto, loro possono ricordarci, in un modo o nell’altro, la necessità estrema che abbiamo di Dio. In altre parole, possono insegnarci una speranza per la nostra vita.

Questa parabola di Gesù, a ben vedere, è di piena e densa attualità nel nostro mondo contemporaneo. L’invito di Dio alla sua “festa” continua in linea di massima, forse, a farsi ascoltare nel cuore di ogni essere umano, soltanto che gli invitati alla festa non vi fanno caso: sono troppo occupati a coltivare i loro campi e i loro affari, in un certo senso umani, troppo umani. Da qui la domanda: dove cercano gli uomini e le donne di oggi il loro vero bene, la loro felicità? A quali porte bussano in cerca di salvezza? In verità, sono davvero molte le offerte di salvezza che offrono le nostre società così dette avanzate e il fatto è che tutti viviamo sotto questa nube che ci impedisce di vedere un qualche orizzonte oltre il nostro piccolo mondo. Quasi tutti credono di sapere cosa sia la felicità che cercano. Prima di tutto il benessere personale o, nel migliore dei casi, il benessere della loro famiglia. E poi sicurezza, svago, cene di fine settimana. Un piacere della vita, insomma, immediato, a portata di mano, ma anche fortemente individualista. I così detti “persuasori occulti”, ma ben nascosti anche tra la gente comune, ci ripetono che si deve fuggire dai problemi e massimamente dai problemi spirituali. Nella vita non c’è niente di più che il piacere del presente, dell’essere soddisfatti e senza alcuna preoccupazione. Ma, come diceva una canzone di qualche anno fa, “finché la barca va”.
Eppure, intorno a noi non si vedono persone felici se non per qualche momento o per qualche circostanza fortuita. La violenza e la rabbia nascosta di tante persone che talvolta esplode nelle pagine delle nostre cronache, dicono, piuttosto, che l’essere umano continua a rimanere insoddisfatto. E l’invito di Dio continua a risuonare a tal punto che possiamo sentirlo non ai margini della nostra vita, bensì in mezzo alle insoddisfazioni, piccole gioie, lotte e incertezze della nostra vita, oppure in mezzo all’isolamento, più completo e doloroso, del qualunquismo totale che ci assedia e ci stringe da ogni parte. Come un tempo diceva e testimoniava la sana e autentica letteratura, quella alta e non quella del mercato dozzinale dei nostri giorni, gli uomini e le donne continueranno a essere degli eterni cercatori di orientamento, felicità, pienezza, verità e amore. Anche quando avranno ricevuto solenni smentite dalle loro esperienze e dalla loro vita. Nessuna cosa riuscirà mai a fermare questa loro inquietudine che, in fin dei conti, è la ricerca del senso della vita. Tuttavia, anche se non ce ne rendiamo conto, - bombardati, come siamo, da messaggi di ogni genere per la nostra vita -, noi viviamo uno stile di vita in cui non è neppure ammessa la domanda sul senso della vita o la necessità di dare un senso ultimo all’esistenza.
Così i nuovi atei o agnostici, peraltro, gridano sui tetti che, semplicemente, “siamo noi a dove dare un senso alla nostra vita, aquelli che si professano non solo non credenti, ma anche più che mai convinti di non avere assolutamente preoccupazioni di tipo spirituale. Ma, se si osserva da vicino la loro posizione, i loro valori e la loro vita, si dovrebbe forse dire che questa sicurezza non è tanto frutto di decisioni responsabili e sicure, quanto piuttosto il risultato di una vita alienata e priva di qualsiasi interiorità. L’esperienza insegna, infatti, che la perdita di interiorità è compensata dall’orgoglio del sé che, effettivamente, non desidera nessuna salvezza fuori dal fatto che ognuno vuole salvarsi da solo e senza nessuno aiuto, per così dire, dall’esterno (Dio?). Di fatto, non si tratta di una grande trovata, originale e anche moderna per così dire, ma della condizione umana in sé e per sé: l’uomo non vuole essere salvato da nessuno, ma soltanto dalle sue capacità o meno di realizzare pienamente la propria vita. Nessuno, credente o non credente, che lo capisca o meno, è disposto naturalmente a potere accettare che deve la sua vita piena ad un altro. L’uomo deve sempre scegliere tra l’orgoglio e l’amore. Anche il credente. E ciò non avviene una volta per tutte, ma deve scegliere quotidianamente.

Dio pone così una condizione e quest’ultima irrinunciabile: che gli invitati, quali che siano, buoni o cattivi, malati o in buona salute, sopra le vesti indossate tutti i giorni rivestano l’abito di nozze. Che cosa, dunque, trova grazia agli occhi di Dio? Il fatto di sentirsi buoni? Moralmente irreprensibili? Votati a servire la causa di Dio? Certo si tratta di cose buone. Ma il vangelo aggiunge qualcosa e dal momento che la parabola ci dice chiaramente che, tra questi invitati del secondo turno, della seconda opportunità, il re non sembra voler fare troppa distinzione tra buoni e cattivi (A. Louf). Tutti allora sono chiamati e invitati alle nozze, ma a condizione di indossare, al di sopra dei loro abiti di miseria e di peccato, la veste gloriosa dell’uomo nuovo, creato in Gesù Cristo nella giustizia e nella santità. Alle celebrazioni di queste nozze, in povere parole, Dio vuole vedere ovunque solo l’immagine del Figlio!

Tutti sono dunque invitati, nessuno viene escluso dal banchetto, ma a condizione che fissi lo sguardo su Gesù, che lo accolga nella fede e che, soprattutto, accetti di lasciarsi purificare e trasformare dalla sua venuta nel mondo e dalla sua morte e risurrezione. San Paolo lo afferma in maniera mirabile: “Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo”(Gal 3,27). Rivestiti di Cristo: è questo e questo soltanto è l’abito nuziale. Invitati alle nozze, non abbiamo più da temere lo sguardo del Padre quando entrerà nella sala del banchetto: vedendoci rivestiti di Cristo, della sua salvezza, vedrà suo Figlio, e il suo cuore palpiterà, per lui come per noi, di gioia, di tenerezza, perfino di fierezza. Amen.

 


don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 10 ottobre 2020

 

 

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